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Sono il fotografo del necrologio: il grido dimenticato del Congo

Aggiornamento: 29 nov 2024


Malnutrizione Repubblica Democratica del Congo

Fotografo del necrologio: il Congo, le sue vittime e il silenzio del mondo


Rientro dalla Repubblica Democratica del Congo con un peso che non posso scrollarmi di dosso. Ogni fotografia scattata lì è una lapide, un ricordo di vite che il mondo ha scelto di ignorare. Mi sento, forse per la prima volta, non un cronista della vita, ma un fotografo del necrologio. Non per scelta, ma per necessità.


Tra i campi profughi che ho visitato, ho visto la fame farsi carne, ho visto un bambino il cui corpo sembrava cinto da un carapace scheletrico, divorato da un ragno metaforico che si annidava dentro di lui. Quel bambino oggi non c’è più. Non riesco a togliermi dalla mente il suo volto, il suo sguardo. Non era solo un bambino. Era il simbolo di un mondo che consuma e distrugge, un’icona di tutto ciò che abbiamo perso come specie.


Nel Congo orientale, da vent’anni, si consuma una guerra silenziosa. Oltre 10 milioni di persone sono morte, 7,2 milioni di sfollati vagano senza futuro. Mentre fotografavo, mentre parlavo con le vittime, non riuscivo a fermare un pensiero martellante: quanto vale la vita umana in un mondo che non guarda?

Questa non è solo una crisi locale. È un disastro globale che intreccia avidità, ipocrisia e potere. I minerali del Congo – coltan, oro, cobalto – fanno funzionare i nostri smartphone, i nostri computer, persino le nostre auto elettriche, ma il loro costo reale è pagato con sangue.


Ogni selfie, ogni messaggio che mandiamo, è intriso di un dolore che non vediamo. Mentre il mondo avanza con la sua tecnologia, il Congo sprofonda in una miseria senza fine.


A tutto questo si aggiunge un altro crimine: quello dell’ambiente. La foresta pluviale del Congo, il secondo polmone verde del pianeta, viene devastata ogni giorno. Milioni di ettari scompaiono, lasciando dietro di sé solo terra bruciata e speranze distrutte. Stiamo uccidendo il nostro futuro per alimentare un presente che non ci salverà.

Paul Kagame
Paul Kagame (Presidente del Ruanda)

Ma il Congo non è solo. Questa rete di distruzione si estende, invisibile, fino ai corridoi del potere. Il presidente ruandese Paul Kagame, lodato e accolto nelle sale diplomatiche dell’Europa, è uno degli artefici più silenziosi di questa tragedia. L’Unione Europea, mentre sigla accordi minerari e stringe mani in apparenza diplomatiche, chiude gli occhi su una realtà agghiacciante. Kagame è accusato di crimini di guerra, torture, assassinii. La sua ombra si allunga fino a Bruxelles, dove i dissidenti ruandesi vivono nella paura di essere avvelenati.


Lo chiamano "Utuzi twa Munyuza", "le gocce d’acqua di Munyuza," un metodo di avvelenamento raffinato e silenzioso, che porta il nome di Dan Munyuza, ambasciatore ruandese implicato in complotti per eliminare i dissidenti. Tra le vittime designate c’è stato persino Denis Mukwege, premio Nobel per la pace, ginecologo che ha curato le ferite del Congo. Durante una visita a Bruxelles nel 2015, il suo autista ruandese gli offrì una cravatta avvelenata. Mukwege si salvò per un soffio.



E non sono solo le figure illustri a essere in pericolo. La diaspora ruandese in Belgio vive un’angoscia quotidiana. Persone come Natacha Abingeneye, che ha osato criticare Kagame, sono state perseguitate, diffamate e minacciate. Automobili sospette sostano sotto le loro case, individui sconosciuti suonano i campanelli e spariscono. Vivono in un perenne stato di allerta, mentre le loro voci vengono ridotte al silenzio.


Anche Carine Kanimba, figlia adottiva di Paul Rusesabagina – l’eroe di Hotel Rwanda – ha subito minacce. Il suo telefono è stato hackerato con il software Pegasus, e un collaboratore di Kagame ha affermato che "meritava un machete d’oro." Non è solo una frase. È un richiamo diretto all’orrore del genocidio del 1994. Eppure, Carine continua a parlare, a denunciare. "Il silenzio è complice," ha detto una volta. E il suo coraggio è un promemoria per tutti noi.




Pegasus Project: lo spyware del controllo assoluto


Il Pegasus Project è un'importante indagine giornalistica internazionale lanciata nel luglio 2021 da Forbidden Stories, un consorzio di giornalismo investigativo con sede a Parigi, in collaborazione con Amnesty International e 17 redazioni internazionali, tra cui The Guardian, The Washington Post e Le Monde. Il progetto ha portato alla luce l'uso sistematico dello spyware Pegasus da parte di governi autoritari per sorvegliare giornalisti, attivisti, oppositori politici e avvocati in tutto il mondo.


Cosa ha rivelato il Pegasus Project


  1. Una lista di 50.000 numeri di telefono: al centro dell’indagine vi è un elenco di numeri di telefono selezionati dai clienti di NSO Group per essere potenzialmente spiati. Tra i numeri c’erano giornalisti, politici, attivisti e persino capi di Stato.


  2. Sorveglianza su larga scala: i governi di diversi paesi, tra cui il Ruanda, l’Arabia Saudita, il Messico, l’Ungheria e l’India, avrebbero utilizzato Pegasus per monitorare figure di spicco e voci critiche, spesso senza alcuna connessione con la lotta al terrorismo o alla criminalità, lo scopo dichiarato dello spyware.


  3. Tecnologia pervasiva: Pegasus può infiltrarsi nei dispositivi senza che la vittima debba fare nulla (zero-click exploit). Una volta installato, può leggere messaggi, registrare conversazioni, accedere a microfono e fotocamera, raccogliere password e persino tracciare i movimenti del bersaglio.


Il Ruolo del Ruanda

Il Pegasus Project ha identificato oltre 3.500 numeri di telefono associati ad attivisti, giornalisti e politici legati al Ruanda che sarebbero stati presi di mira. Tra questi, membri della diaspora ruandese, considerati una minaccia al regime di Paul Kagame. È stato riportato che il governo ruandese ha utilizzato Pegasus per monitorare dissidenti in Europa, includendo personalità come Carine Kanimba come già scritto, figlia di Paul Rusesabagina, l’eroe di Hotel Rwanda.


Impatto globale del Pegasus Project


L’indagine ha avuto un enorme impatto mediatico, portando a:


  1. Un maggiore scrutinio sulle operazioni di NSO Group e delle aziende che producono spyware.


  2. Indagini in alcuni paesi sull’uso improprio di Pegasus.


  3. Appelli per una regolamentazione più severa della vendita e dell’uso di spyware a livello internazionale.


Il Pegasus Project rappresenta una finestra inquietante sul mondo della sorveglianza tecnologica e sull'erosione della privacy e dei diritti umani in nome della sicurezza. Ha dimostrato come la tecnologia possa diventare un’arma nelle mani di regimi autoritari per controllare e reprimere ogni forma di dissenso.



Andiamo avanti:


Il 18 dicembre 2023, Ursula von der Leyen ha stretto la mano a Kagame a Kigali. Una stretta di mano che pesa come un macigno sulla coscienza del mondo. Ogni volta che un leader europeo incontra Kagame, rafforza la sua impunità e mette in pericolo non solo i dissidenti, ma i valori stessi di giustizia e dignità umana.


E mentre il mondo applaude eventi come i Campionati Mondiali di Ciclismo in Rwanda, organizzati nel 2025, Kagame riceve una legittimazione per continuare il suo regime. "Sportswashing," lo chiamano. Una patina di rispettabilità che nasconde torture, omicidi, genocidi.


Scrivo queste righe con il cuore in frantumi. Non sono più sicuro che la fotografia sia abbastanza. Ogni immagine che ho scattato in Congo è un urlo, un appello disperato. Ma temo che nessuno ascolti. Il mio progetto, che culminerà nel 2026, non sarà solo una mostra. Sarà un atto d’accusa. Perché quel bambino divorato dal "ragno," quella foresta distrutta, quei dissidenti perseguitati non sono "altrove." Sono parte di noi.


E se continuiamo a ignorarli, non sarà il Congo a scomparire. Saremo noi a perdere la nostra ultima traccia di umanità.

Il volto oscuro del M23: radici, conflitti e impatti nella RDC

Il Movimento del 23 Marzo (M23) è un gruppo armato attivo nell'est della Repubblica Democratica del Congo (RDC), principalmente nella provincia del Nord Kivu. Fondato nel 2012, il nome "M23" deriva dagli accordi di pace firmati il 23 marzo 2009 tra il governo congolese e il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), un precedente gruppo ribelle. L'M23 è composto principalmente da individui di etnia tutsi e ha avuto legami con il Ruanda.


Origini e formazione: Nel 2009, il CNDP firmò un accordo di pace con il governo della RDC, accettando di trasformarsi in partito politico e di integrare i suoi combattenti nell'esercito nazionale. Tuttavia, nel 2012, alcuni ex membri del CNDP, insoddisfatti dell'implementazione dell'accordo, disertarono dall'esercito congolese e formarono l'M23. Tra le figure chiave del movimento vi erano Sultani Makenga e Bosco Ntaganda, quest'ultimo noto come "The Terminator" giudicato colpevole dal Tribunale penale internazionale.


Obiettivi dichiarati: L'M23 affermava di lottare per i diritti dei tutsi congolesi e di proteggere le loro comunità dagli attacchi di altri gruppi armati, in particolare quelli hutu. Tuttavia, le sue azioni sul campo hanno spesso incluso il controllo di territori strategici e risorse naturali, alimentando sospetti su motivazioni economiche e politiche più ampie.


Attività e conflitti: Nel novembre 2012, l'M23 prese il controllo di Goma, capitale del Nord Kivu, costringendo migliaia di persone a fuggire. Dopo intense pressioni internazionali e negoziati, il gruppo si ritirò dalla città nel dicembre dello stesso anno. Nel 2013, una brigata d'intervento delle Nazioni Unite, insieme all'esercito congolese, lanciò offensive contro l'M23, portando alla sua sconfitta e alla fuga dei suoi leader in Uganda e Ruanda.


Supporto esterno: Diversi rapporti, tra cui quelli delle Nazioni Unite, hanno indicato che l'M23 ha ricevuto supporto militare e logistico dal Ruanda, sebbene Kigali abbia negato tali accuse. Questo sostegno avrebbe incluso armi sofisticate e addestramento, contribuendo alla capacità operativa del gruppo.


Ripresa delle attività: Nonostante la sconfitta del 2013, l'M23 ha ripreso le sue attività negli anni successivi. Nel 2022, il gruppo ha lanciato una nuova offensiva, catturando diverse città e villaggi nel Nord Kivu, tra cui Bunagana. Queste azioni hanno riacceso le tensioni regionali e le accuse di coinvolgimento del Ruanda nel conflitto.


Situazione attuale: Al novembre 2024, l'M23 continua a essere una presenza significativa nell'est della RDC, con controlli su alcune aree strategiche. Gli sforzi diplomatici e militari per neutralizzare il gruppo proseguono, ma la complessità delle dinamiche etniche, politiche ed economiche nella regione rende difficile una risoluzione definitiva del conflitto.




Aggiornamento sul caso di Charles Onana


Charles Onana
Charles Onana

Ma la guerra non si combatte solo nella Repubblica Democratica del Congo. Esiste un conflitto parallelo, combattuto sul piano della memoria, delle narrazioni storiche e della verità. Una battaglia che ha coinvolto figure come il giornalista e politologo Charles Onana, autore di numerosi libri sulla regione dei Grandi Laghi africani, che ha dedicato la sua carriera a denunciare i legami tra il genocidio del Ruanda del 1994 e i conflitti che devastano il Congo orientale.


Onana è recentemente finito al centro di un processo a Parigi, con l’accusa di negazionismo del genocidio contro i Tutsi. Le sue opere, tra cui Rwanda, la vérité sur l'opération Turquoise, mettono in discussione le versioni ufficiali degli eventi e approfondiscono il ruolo delle potenze internazionali e dei governi locali, come quello di Paul Kagame, nell’innescare e perpetuare la crisi nella regione. Pur suscitando critiche e controversie, i suoi lavori sollevano interrogativi essenziali sulle responsabilità globali nei crimini che continuano a segnare il destino del Congo.


La battaglia di Onana nei tribunali francesi rappresenta più di una semplice questione legale. È il simbolo di un conflitto più ampio, in cui il silenzio del mondo e le narrazioni frammentate minacciano di seppellire la memoria delle vittime. In un momento in cui la foresta pluviale viene distrutta, i bambini muoiono di fame e le vite umane sono scambiate per minerali preziosi, il Congo ha bisogno di giustizia, non di nuove forme di impunità. La sentenza del processo contro Onana, attesa nelle prossime settimane, non definirà solo il suo futuro, ma rappresenterà anche un giudizio su quanto il mondo sia disposto a guardare in faccia la verità.

Senza memoria, non può esserci giustizia. Senza giustizia, il Congo continuerà a sanguinare, e con esso sanguineremo anche noi. Quando leggeremo questo articolo, forse esclameremo “oh mio Dio” e torneremo a cena, spezzando il pane sopra il dolore che ci è stato mostrato. È così che spesso facciamo: ci indigniamo, ci commuoviamo, ma continuiamo a vivere. Eppure, ogni boccone che condividiamo porta con sé le lacrime di chi non ha più voce. Quanto ancora possiamo ignorarlo, mentre il mondo ci chiama a rispondere?


 

RawFacts è più di un progetto. È un grido d'allarme. È il volto dei dimenticati, dei raccoglitori di Dandora, dei bambini che giocano tra i rifiuti e degli ecosistemi che lottano per sopravvivere. Non possiamo permetterci di voltare lo sguardo.









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